"Hi
certo anni tempore in finibus carnutum, quae regio totius Gallie media
habetur, considunt in loco consecrato. Huc omnes undique qui controuersias
habent conueniunt eorumque decretis iudiciisque parent.
Disciplina in Britannia reperta atque inde in Galliam translata esse
existimatur, et nunc qui diligentius eam rem conoscere uolunt plerumque
illo discendi causa proficiscuntur…”
Caio Giulio Cesare, “De Bello gallico”, Libro
Sesto – Cap. XIII
Nel
parlare di quel grande fenomeno culturale europeo, sviluppatosi a
cavallo tra neolitico ed età dei metalli, meglio conosciuto
sotto il nome di “Cultura Megalitica” non si può
certo ignorare il prezioso contributo dato dai volumi recentemente
pubblicati dal professor Vittorio Castellani, ordinario di astrofisica
alla Normale di Pisa, accademico di consolidata fama internazionale.
In particolare nella sua ultima opera “Quando il mare sommerse
L’Europa” (1999, ed. Ananke – Torino) si pongono
sotto accurata indagine gli stretti (ma ancora poco studiati) rapporti
tra il fenomeno megalitico e quello celtico.
Nell’800 si è sempre ritenuto che le strutture megalitiche
fossero da attribuirsi ai Celti (addirittura i dolmen utilizzati dai
druidi come altari per i sacrifici…) poi, nel corso dei primi
anni del ‘900, si diffuse l’erronea convinzione che tali
costruzioni non fossero altro che un riflesso di tecniche costruttive
orientali (le famose tombe a tholos micenee edificate attorno alla
media età del bronzo) importate successivamente in Europa occidentale.
Con l’introduzione della datazione al radiocarbonio (nel secondo
dopoguerra del secolo scorso) è stata finalmente messa la parola
fine alla questione “megalitica”.
Le strutture (dolmen, menhir, cromlech) presenti sulle sponde atlantiche
risultavano databili, in alcuni casi, al V/VI millennio a.C. (si pensi
alle sepolture ritrovate a Carnac, in Bretagna, databili al 5000 a.C.),
3500 anni più vecchie quindi delle tombe micenee e 2500 anni
più antiche delle pur antichissime piramidi.
La cultura megalitica è stata quindi la prima vera e originaria
cultura di stampo tipicamente “occidentale” che dall’Atlantico,
nel corso del neolitico, iniziò a spostarsi verso oriente,
per motivi ancora in gran parte sconosciuti (anche se il titolo del
saggio del Castellani è piuttosto esplicito in tal senso…).
I siti più antichi sono in effetti quelli bretoni, irlandesi,
britannici e portoghesi (tutti in corrispondenza delle coste atlantiche)
mentre procedendo progressivamente dalle coste verso la parte continentale
possiamo notare una graduale (cronologicamente parlando) riduzione
dell’antichità dei siti, passando da alcune evidenze
archeologiche della Francia meridionale e della Svizzera databili
all’età del Rame (si pensi al dolmen e ai menhir di Sion,
nel Vallese) sino al megalitismo italiano (soprattutto pugliese) risalente
alla media età del Bronzo (una cartina con l’evoluzione
del fenomeno megalitico è visibile all’indirizzo: http://www.nuovaricerca.org/dolmen/diffusione_megalith.htm)
Il
megalitismo inoltre, una realtà fortemente radicata a livello
sociale e materiale, lasciò un’importante traccia di
sé all’interno dei successivi fenomeni culturali che
si avvicendarono sul continente europeo.
Secondo alcuni studiosi sembra infatti che la cultura celtica non
abbia rappresentato altro che un “ponte” (chiaramente
con le sue specificità socio-culturali) tra la cultura megalitica
e quella greco-romana.
In sostanza i Celti avrebbero traghettato le reminescenze megalitiche
in piena epoca storica.
Morte, a livello archeologico, le teorie diffusioniste, che vedevano
nella storia una continua sovrapposizione di popolazioni arrivate
a soppiantarne altre (ricavabile dalle variazioni costruttive, artistiche
e tecnologiche dei reperti ritrovati) oggi si fanno strada scenari
interpretativi più elastici e meno rigidamente ancorati al
concetto di “scontro di civiltà”.
Secondo Castellani "…variazioni del contesto materiale
dei reperti non implicano affatto invasione di nuove genti, ma solo
l’importazione di tecniche, usi o stili da parte del preesistente
popolo...” (V.Castellani, "Quando il mare sommerse
l'Europa", 1999, ed. Ananke – Torino, pag.97).
Ragionando per assurdo, se un archeologo tra 5000 anni dovesse scavare
all’interno delle nostre città europee, dall’evidenza
dei reperti dovrebbe presupporre, seguendo le teorie diffusioniste,
che vi sia stata un’invasione delle popolazioni nord-americane
in Europa nel corso del XX secolo, con l’introduzione massiccia
di tecnologia e stili di vita tipicamente nord-americani.
Sappiamo invece che questo non è avvenuto così come
sappiamo che anche le popolazioni vissute a cavallo tra neolitico
ed Era dei metalli non conducevano la propria esistenza secondo compartimenti
culturali stagni, incapaci di veicolare conoscenze e credenze sul
territorio europeo.
Al contrario (e nello specifico) vi deve essere stato un fitto scambio
a livello culturale, religioso e tecnologico tra un megalitismo nella
sua fase ormai più decadente (con l’arretramento verso
l’interno e verso est molto dell’originaria spinta civilizzatrice
si disperse o si trasformò parzialmente) e un celtismo che,
nel corso dell’età del Bronzo, inizia la sua rapida espansione
verso le terre occidentali e quelle meridionali.
Sono diversi gli indizi che vengono a supportare questa tesi.
In primo luogo il cosiddetto “paradosso” Britannico.
Sappiamo per certo che, dati archeologici alla mano (assenza di reperti
della cultura di Hallstatt e abbondanza di reperti della cultura di
La Tene), i Celti (o meglio, tralasciando teorie di tipo diffusionista,
i loro manufatti) penetrarono nelle isole Britanniche non prima del
VI sec. a.C..
Nel contempo sappiamo come i Celti siano una popolazione più
antica, di origine indoeuropea, arrivata a stanziarsi durante l’età
del Bronzo lungo il corso superiore del Danubio e nella Francia orientale.
Eppure, secondo Giulio Cesare, il druidismo, una delle principali
istituzioni religiose celtiche, fu importato proprio dalla Britannia.
Scrive infatti nel “De Bello Gallico”: "...si
ritiene che la loro regola di vita sia stata scoperta in Britannia
e quindi sia stata portata in Gallia; ed oggi, coloro che desiderano
studiare la questione con maggiore esattezza, sogliono recarsi in
Britannia per apprendere sempre di più” (cit. in
V.Castellani, "Quando il mare sommerse l'Europa",
1999, ed. Ananke – Torino, pag.96).
Questo non si concilia affatto con i dati archeologici in nostro possesso,
ponendo così una sorta di paradosso. Ragionando correttamente
il druidismo dovrebbe essere nato non nelle isole Britanniche ma nelle
terre di origine dei Celti, cioè al di là del Reno e
del Danubio.
In realtà il paradosso potrebbe benissimo essere superato ponendo
come dato (certo discutibile ma al momento l’unico formulabile)
che il druidismo non sia altro che un’istituzione religiosa
importata (per contaminazione) dalla cultura megalitica.
Un altro studioso (Dawson) fa notare come il druidismo, inteso come
istituzione fondamentale della società celtica, non sia assolutamente
presente nelle originarie zone di diffusione delle popolazioni autenticamente
celtiche ma sia comparso solo in seguito nei territori occupati da
una precedente civilizzazione megalitica.
Del resto oggi, adottando uno scenario tipicamente non-diffusionista,
si è iniziato a parlare di società miste, quali Celtiberi,
Celtoliguri, Galato-Elleni, proprio a designare una progressiva compenetrazione
di culture tanto diverse nel corso dell’età del Bronzo
e del Ferro.
Altri indizi sono il culto solare e le profonde conoscenze astronomiche,
comune denominatore nelle due culture, testimoniate dai circoli di
pietre di Avebury e Stonehenge (per le popolazioni megalitiche) e
dalle testimonianze che ci sono pervenute sulle abitudini delle popolazioni
celtiche grazie ad autori antichi come Diodoro Siculo, Plinio il Vecchio
e Poseidonio.
Addirittura, nel 1938, sono state rinvenute, all’interno di
una sepoltura risalente al neolitico, tracce di vischio, pianta sacra
agli antichi Druidi.
Tracce di questa contaminazione sono presenti in maniera piuttosto
concreta anche in Italia, specificatamente nel territorio ossolano
(oggetto di studio dell’Associazione Culturale Nuova Ricerca)
dove accanto alle tracce delle popolazione lepontiche sono stati recentemente
rinvenuti menhir e cromlech in quantità (e qualità)
considerevole.
I Celti potrebbero esser quindi divenuti, in un certo senso, i “custodi”
dell’eredità megalitica sino ai nostri giorni, custodi
di una patrimonio di conoscenze e valori culturali che appartengono
a pieno titolo alle nostre comuni ed originarie radici autenticamente
europee.
“…(i druidi)…in un certo periodo fisso dell’anno
siedono in giudizio in un luogo sacro,nella terra dei Carnuti, che
si ritiene essere il centro dell Gallia. Qui vengono da ogni parte
coloro che hanno delle controversie e si sottopongono al loro giudizio
e alle loro decisioni. E’ comune opinione che l’organizzazione
dei Druidi sia originaria della Britannia e di lì sia passata
in Gallia ed ora chi vuole approfondire lo studio, si reca per lo
più in tale isola, alla ricerca di notizie al riguardo…”
Caio Giulio Cesare, “De
Bello gallico”, Libro Sesto – Cap. XIII